Covid-19 ha voluto dire per le imprese, per quanto riguarda la gestione delle risorse umane, trovarsi di fronte ad un panorama normativo in continua evoluzione: nuovi regolamenti vengono introdotti, infatti, a cadenza ravvicinata così da rendere ardua la capacità di recepimento dei medesimi da parte delle funzioni HR, chiamate a tradurli in processi organizzativi e procedure che, dopo una fase di test, devono scandire la normalità del day by day.
Come sottolinea Nicola Uva, Senior Director EMEA Marketing ADP, “se pensiamo a tematiche come quelle riguardanti le responsabilità del datore di lavoro in tema di test sierologici e contagio di un dipendente, congedo e indennità per i genitori, quarantena e malattia per i dipendenti, lavoro da remoto, cassa integrazione, ecc. ci troviamo di fronte ad una giungla di problematiche che, necessariamente, richiedono comunque un surplus di energia/tecnologia per essere adeguatamente gestite. In altri termini, l’entità potenziale del cambiamento da affrontare risulta enorme, e talvolta anche scoraggiante”.
Ma, prosegue Uva, “nello stesso tempo, questa situazione offre alle aziende l’opportunità, dettata dalla necessità, di creare quelle competenze in cui avrebbero forse dovuto investire prima della pandemia: essere più digitali, data-driven e sul cloud, avere più strutture di costo variabili, operations più agili e più automazione”.
Naturalmente, lo sviluppo del nuovo ecosistema aziendale avrà come obiettivo quello di gestire la transizione verso un’era, quella post-Covid, che strutturalmente non potrà essere il mero ritorno alla situazione pre-Covid, bensì dovrà configurarsi come un “new normal”, ovvero un’epoca che ha come cifra specifica quella del costante mutamento, all’interno della quale sarà impossibile procedere secondo modelli cristallizzati e precostituiti.
A partire da tale scenario occorre tenere conto anche del fatto che proprio la variabile “risorse umane” non può essere classificata come un mero “tool” manipolabile a mezzo di qualsiasi soluzione software/IT. Il vissuto della forza lavoro costituisce infatti il fattore discriminante perché avvenga o meno quell’adeguamento ai nuovi canoni aziendali di cui si è fatto fin qui cenno.
Si scopre allora che, secondo quanto riportato dal Report “Workforce View 2020 Vol. 2 Post COVID-19” di ADP Research Institute, l'84% dei lavoratori a livello globale intervistato dopo la pandemia risulta ancora ottimista rispetto alle prospettive a medio termine del proprio posto di lavoro. Nel breve, oltre la metà dei lavoratori europei si dichiara positivo rispetto al proprio percorso di carriera. In base alle fasce di età, i lavoratori più giovani (25-34) rimangono i più ottimisti riguardo ai prossimi 6 mesi (82%). Il dato cala di ben 25 punti se misurato tra gli over 55. Anche se occorre dire che tale divario si assottiglia se si parametra l’ottimismo rispetto ai prossimi 5 anni.
In sintesi, si osserva quindi che quello del Covid per la maggior parte dei lavoratori potrebbe rappresentare un’opportunità per acquisire, ad esempio, più rapidamente nuove competenze, ottenere un avanzamento di carriera, oppure optare per una destrutturazione del percorso lavorativo.
Lo scenario cambia se, anziché i lavoratori, si mette a fuoco esclusivamente la realtà dei datori di lavoro, dove il mood è e rimane invece piuttosto negativo. Secondo i dati di Confindustria, per esempio, se ad una prima analisi (febbraio 2020) del mondo imprenditoriale risultava una percezione negativa per il 67,2% degli individui rappresentati, tale percentuale saliva irrimediabilmente alla quasi totalità delle imprese testate due mesi dopo (aprile). Il peggioramento si è verificato anche per l’entità del danno subito, dal momento che le imprese con problemi molto gravi sono state nel mese di aprile il 43,7%, contro il 14,4% della precedente tranche.
E’ bene ricordare anche che oltre un terzo delle imprese italiane (36,5%), in seguito all’emanazione dei DPCM del 22 e del 25 marzo scorso, ha dovuto chiudere la propria attività, mentre il 33,8% l’ha chiusa parzialmente.
In media, rispetto alla normalità (marzo 2019), si è assistito ad un calo del 32,6% del fatturato e del 32,5% delle ore lavorate. I cali sono visibilmente più marcati per le imprese con meno di 10 dipendenti (con una diminuzione del 39,7% del fatturato e del 37,3% delle ore lavorate).
Lo scenario descritto, ci permette di capire come contestualizzare un adeguato piano di trasformazione del proprio sistema di gestione delle risorse umane a 360 gradi, dalle buste paga ai congedi parentali, alle quarantene al lavoro agile e agli altri aspetti connessi.
Non è possibile, infatti, pensare che sia sufficiente mettere mano a un singolo aspetto per potere affrontare la sfida Covid. Ciò che viene chiamato in causa è attualmente, infatti, l’approccio generale in quanto tale, ovvero l’orientamento di base, del management. Solo grazie a una rimodulazione a questo livello della gestione aziendale potrà essere messa a fuoco adeguatamente la misura che ogni cambiamento potrà richiedere.
“La prima evidenza che ci sembra dunque possa risultare in seguito all’impatto del Coronavirus sulla vita delle nostre imprese è senza dubbio la necessità di ricorrere al paradigma della Open Innovation, dichiara Nicola Uva. E’ infatti impossibile gestire da soli la mole delle operazioni richieste a livello normativo/contabile dal mutato contesto macro/micro-economico”.
Rispetto ad ogni soluzione On Premise, sarà allora da preferirsi l’alternativa SaaS (Software as a service, cloud), che ci mette nella condizione di concentrarci sugli aspetti che più ineriscono la gestione caratteristica del business da una parte, e ci garantisce quella flessibilità/agilità per potere rispondere a ulteriori, ma prevedibili, richieste di modifica delle procedure operative dall’altra.
Ne consegue che risulta imprescindibile fare capo alla figura di un partner di fiducia, per la gestione in Cloud della gestione payroll, che ci “accompagni” nell’arduo sentiero che ogni giorno, a partire dal lockdown, ci aspetta, nell’ottica di individuare quelle soluzioni più calibrate e scalabili per la singola impresa, sapendo che si tratta di modalità di gestione del day by day passibili di mutamenti improvvisi e discontinui anche sostanziali.
Il partner è chiamato, nello stesso tempo, ad aiutare il management a comprendere ciò che succede al di fuori del perimetro della singola comunità aziendale, nell’ambito del più ampio ecosistema di stakesholder (clienti, fornitori, sindacati, Istituzioni, business community, ecc) che, mai come in questo periodo, risultano soggetti incidenti sulla vita dell’impresa medesima. In questo senso, posizionando la realtà aziendale nel giusto contesto, ogni decisione interna all’azienda verrà presa in sintonia con quanto succede al di fuori del proprio perimetro, in modo da garantire l’impatto più adeguato sulla complessiva competitività dell’unità produttiva o di servizi.
“Ciò permetterà di mettere a sistema il triplice tema “cambiamento/adeguamento/discontinuità” dello scenario competitivo con cui ogni giorno si deve fare i conti.
Siamo di fronte, in sintesi, a una sfida a più livelli e su diversi fronti: dall’operational al management, da quello dei fornitori a quello dei competitor, a quello dei dipendenti e delle loro modalità di reagire alle nuove situazioni che via via si incontrano. Solo se affronteremo il challenge condividendolo con il partner giusto potremo essere in grado di competere in un quadro economico e sociale complesso e ad elevata criticità, come quello presente e, prevedibilmente, anche di un futuro prossimo”, conclude Nicola Uva.
Nicola Uva Senior Director EMEA Marketing ADP